Non ero il solo ad essere rimasto sotto shock dopo le uscite di Trump sui dazi. Nelle due sedute successive al c.d. “Liberation Day”, lo S&P500 aveva lasciato sul piatto il 12%, ed il VIX, l’indice della volatilità, era schizzato ai massimi di sempre.
Lo scorso fine settimana, quello che può essere definito, date le premesse di partenza, un buon deal, ha posto la parola “basta-per-adesso” ad un periodo di incertezza che poteva mettere a rischio le pur ridotte attese di crescita economica su questa sponda del Pond, ossia l’Oceano Atlantico, come lo chiamano i diplomatici di un certo rango.
Ad andare a guardare i dati, in effetti, era dallo Smoot–Hawley Tariff Act del 1930 che non si vedevano dazi all’importazione così elevati sui beni in ingresso negli USA. All’epoca, Smoot e Hawley, i due politici repubblicani che avevano sponsorizzato le misure protezionistiche, intendevano porre rimedio agli eccessi di offerta di beni sui mercati americani di fatto eliminando la concorrenza internazionale. Sappiamo come andò a finire: le misure protezionistiche vennero adottate da altri paesi anche in Europa, il commercio internazionale crollò, portandosi dietro domanda aggregata e posti di lavoro e facendo emergere, per questa via, le condizioni sociali che portarono all’emergere di fascismo e nazismo.
Per Donald Trump oggi i dazi sono lo strumento per – a suo dire – ridurre il deficit di bilancia commerciale degli USA, sia rendendo i beni importati più cari per i consumatori statunitensi, che obbligando i partner commerciali a fare acquisti in USA.

L’impatto
L’accordo prevede una tariffa del 15% sulle esportazioni della UE verso gli USA. Si tratta di una tassa che viene pagata dal consumatore americano e va a beneficio del Tesoro USA e che si somma al prezzo del bene.
Occorre dire che i prodotti più esportati dalla UE negli USA appartengono alle categorie dei farmaceutici e dei prodotti sanitari, che pesano per il 20% del totale e che saranno selettivamente colpiti dai dazi – lo stesso Trump vuole evitare che prodotti necessari ma non sostituibili da produzioni domestiche subiscano aumenti di prezzo. Per motivi simili, vi sono esclusioni strategiche per il settore aerospaziale (Airbus, ad esempio) e per i macchinari industriali, settore in cui la UE è leader globale e in cui non esiste concorrenza in USA.
Per quanto riguarda le altre categorie merceologiche, gli effetti sulle produzioni continentali dipenderanno da vari fattori. In un post dedicato al pricing power, facevamo l’esempio della Ferrari Roma: se prima costava al Signor Howard Cunningham Jr. di Milwaukee 300 mila dollari, adesso costerà 345 mila. Siccome non c’è un prodotto analogo alla Ferrari negli USA, probabilmente Ferrari S.p.A. terrà il prezzo pieno senza subire cali di profittabilità né di vendite. “Si campa una volta sola” è – immagino – il pensiero di chi ordina una Ferrari, il che concede rigidità alla domanda dei capolavori a 4 ruote di Maranello.
Viceversa, se Miss Smith riceve il fidanzato il venerdì sera cena la sera dopo l’ufficio a Schenectady, si troverà la bottiglia di Barolo Piemontese aumentata un bel po’ di prezzo sullo scaffale di Walmart, magari opterà per un altrettanto buon californiano. “Import substitution”, in gergo, ovvero: Napa Valley vince, Cuneo perde.
Ovviamente non è tutto così bianco o nero, anche perché magari a qualcuno a Milwuakee piace anche la Chevrolet Corvette (de gustibus), mentre la cantina delle Langhe può ad un certo punto decidere di scontare un poco il suo prodotto ed assorbire, totalmente o anche parzialmente, la tassa al consumo.
Tutto questo si aggiunge al trend di svalutazione del dollaro, che ha perso un 10% negli ultimi mesi, rendendo i prodotti europei più cari negli USA e riducendone, quindi, la domanda a parità di prezzo in euro per gli esportatori di casa nostra.
Tirando le somme, si può stimare un calo dell’export europeo in USA del 25% – composto più da vino e prodotti alimentari che da automobili Ferrari o tailleur di Brunello Cucinelli.
Nel 2024 i Paesi UE hanno esportato merci per circa 550 mld di euro negli USA, con un trend di crescita del 8% circa negli ultimi 10 anni.
Per l’Italia, che esportava circa 65 miliardi nel 2024, si tratta di un calo potenziale di 15-20 miliardi: non molto in termini di % sul Pil nazionale (0,2% / 0,3% nel caso peggiore, ricordiamo che il PIL esprime non i ricavi ma il valore aggiunto) ma potenzialmente devastante per qualche azienda media o piccola con un consistente business negli USA e scarso pricing power, che si troverebbe i ricavi seriamente tagliati dagli effetti dei dazi.
Ragionando sulla stessa linea, il problema è molto più serio per un paese come la Germania, che esportava 160 miliardi e che potrebbe perdere 40 miliardi di export, con un impatto sul suo Pil doppio rispetto a quello dell’Italia.

Le altre condizioni
L’accordo con la UE – che, saggiamente, ha deciso di non adottare misure ritorsive per evitare l’escalation tit-for-tat – prevede anche che i Paesi UE si impegnino a:
- Acquistare 600 miliardi di dollari di beni e servizi prodotti in USA, e;
- Acquistare 750 miliardi di prodotti energetici.
Ora, c’è da dire che queste misure sono già parzialmente incorporate in tutti gli scenari: molto degli acquisti riguarderà i programmi relativi alla difesa, di cui, purtroppo, c’è bisogno dato il vicino che ci è toccato in sorte in questa parte dell’Atlantico; e gli acquisti di prodotti energetici che sono una diretta conseguenza dell’attuale situazione di rischio geopolitico: non è consigliabile andare a fare benzina da uno che poi, con i soldi, si compra un bazooka per sfasciarci la casa.
Tutto bene quindi?
No. Le condizioni operative dell’amministrazione Trump sono roba da gangster. Noi ci ridiamo, ma non è che Trump sia tanto meglio di Putin. In fondo, simile è l’approccio nei confronti degli impegni assunti: regole del WTO per l’uno, garanzie prestate agli stati confinanti per l’altro.
Nei suoi lunghi e approfonditi studi geo-economici, Ray Dalio, in estrema sintesi, dice che i sistemi economici e politici ad un certo punto diventano autofagi: le classi dominanti estraggono sempre più vantaggi per loro a scapito dell’equilibrio del sistema nel suo complesso, ed è qualcosa che vale sia per le “élite” (in realtà dei gangster) moscovite di oggi che per il “Deal” di Trump: con il casino che ha creato con i dazi, negli stessi USA, non c’è infatti alcuna possibilità che amministrazioni, imprese e cittadini abbiano la possibilità di investire in un’ottica di lungo termine per creare condizioni sostenibili di import substitution, che poi sarebbero nuove imprese che fanno le cose che ora costa tanto importare.
Per quanto riguarda i dazi, il problema è che, essendo tasse sul consumo, gravano principalmente sui ceti meno abbienti, quelli che hanno una propensione al consumo in proporzione al reddito più elevata, a volte pari al 100%.
A questo, la c.d. “Beautiful Bill” passata al Senato lo scorso 1 luglio aggiunge aggravi fiscali impliciti per le classi meno abbienti, principalmente per il tramite dell’eliminazione del supporto Medicaid, che vale circa 1.800 dollari a famiglia; e sgravi per le classi di reddito più elevate, che possono arrivare a 300.000 dollari l’anno per la fascia di reddito dello 0,1% superiore. Il tutto, secondo il Budget Lab dell’Università di Yale, rischia di portare il rapporto debito/pil americano ad oltre il 180% nel 2054. Una sorta di Robin Hood al contrario, quindi, che non potrà che incrementare i livelli di estremismo e violenza nella già molto frammentata società americana.
E noi?
Ci piaccia o meno, l’Europa da ottant’anni vive sotto l’ombrello difensivo della Nato che, dalla data di costituzione, ci richiedeva di dedicare almeno il 2% del Pil nella difesa. Da anni questo non succede e gli USA – da questo punto di vista, come biasimarli – adesso sono venuti a chiederci di aggiornare le cose e di pagare il pregresso, dato che, tra l’altro, ci accorgiamo finalmente che una minaccia attuale e concreta esiste davvero.
L’attuale situazione di crisi, evidenziata anche dalla “trattativa” sui dazi, dovrebbe condurre le nostre classi dirigenti a dare alla UE una strategia attiva di partecipazione agli affari continentali e alla gestione delle crisi alle porte di casa.
L’alternativa, infatti, non esiste. Un po’ perché la Nato non serve più a degli interessi primari dei suoi fondatori. Un po’ perché, cammin facendo, questo ombrello che poco ci ripara ci costerà sempre più caro, ed è quindi ora che ce lo compriamo noi uno nostro, di ombrello.
Secondo Wired, infatti, il Potere americano sta andando “in merda”: ma letteralmente. Leggete qui.