Tra tutti gli argomenti che si studiano nelle facoltà di economia pochi sono così utili per capire davvero le cose come l’equazione quantitativa della moneta
MV = PQ
che, in estrema sintesi, stabilisce una relazione diretta tra quantità (nominale) di denaro in circolazione e livello dei prezzi; e ci spiega che nel breve – ma anche nel medio – periodo il vaore Q, ossia le quantità di beni e servizi in offerta sono da considerare rigidi, così come le abitudini degli operatori simboleggiati da V, la velocità di circolazione, e che quindi degli incrementi dei valori di M, ossia la quantità di moneta, si “scaricano” prevalentemente sui prezzi, facendoli salire e dando origine al fenomeno che conosciamo come “inflazione”.
Alla base della domanda di oro, bene per definizione ad offerta molto rigida, c’è proprio la comprensione di questa equazione.
The Big Read
In questo quadro, nel suo lungo articolo di ieri, l’FT si interroga su una domanda che da settimane aleggia nei mercati: quanto potrà durare la corsa dell’oro?
Dopo tre anni di rialzi ininterrotti e un +50% solo nel 2025, il prezzo del metallo giallo ha superato i 4.000 dollari l’oncia, il livello più alto mai raggiunto. In Giappone i rivenditori sono stati costretti a sospendere le vendite di lingotti di piccolo taglio, e in tutto il mondo — dall’India alla Turchia, dagli Stati Uniti all’Europa — la domanda retail è esplosa.
A muovere il mercato non sono più solo le banche centrali dei Paesi emergenti, che dal 2022 accumulano riserve record per diversificarsi dal dollaro, ma anche investitori istituzionali e privati travolti da una nuova forma di ‘gold-plated FOMO’ — la paura di restare esclusi da un bene rifugio la cui corsa sembra non conoscere limiti.

Debasement rally?
La narrativa dominante è, appunto, quella del ‘debasement trade’: l’idea che i governi occidentali, oberati da debiti sempre più elevati, cercheranno di ridurli attraverso inflazione e tassi d’interesse reali negativi. la Famosa “Repressione Finanziaria” che chi mi segue ha avuto modo di conoscere.
La cosa negli utlimi tempi si è acuita anche dato il fatto che negli Stati Uniti sta avvenendo qualcosa di totalmente irrituale. Trump ha infatti iniziato da tempo a fare pressioni sulla Federal Reserve affinché tagli i tassi per alleviare il peso del debito pubblico, minando di fatto la percezione di indipendenza dell’istituto centrale e per questa via del controllo della variabile “M” dell’equazione di cui sopra. È questo timore — più che l’inflazione stessa — a spingere molti risparmiatori verso un bene che non può essere stampato a costo zero per motivi politici di breve termine.
Parallelamente, la quota dell’oro nelle riserve valutarie mondiali (esclusi gli USA) è salita al 24%, avvicinandosi per valore complessivo ai Treasury (titoli di stato USA) detenuti all’estero. Una rivoluzione nella geografia finanziaria globale.
Se la sicurezza diventa rischio
Il FT nota che il prezzo dell’oro oggi è oltre il 20% sopra la media mobile a 200 giorni e il 70% sopra quella a 200 settimane: una configurazione tecnica verificatasi solo tre volte negli ultimi cinquant’anni, e in tutti i casi seguita da correzioni del 20–30%.
Le mani forti restano compratrici, ma l’euforia crescente e il ritorno massiccio dei piccoli investitori — storicamente indicatori contrarian — lasciano intravedere il rischio di una bolla. Quando anche il ‘bene rifugio’ diventa oggetto di speculazione collettiva, il rischio non è più solo di perdita, ma di illusione di protezione.
Anche alla fine degli anni ’70 l’oro raggiunse i massimi storici trainato dall’inflazione – attuale, non semplicemente attesa o implicita – ma poi le banche centrali intervennero, i tassi andarono su, le economie stallarono per qualche anno e di lì a poco il sistema ripartì tra un edonismo reganiano qui, delle politiche dell’offerta lì e gli scambi internazionali che si aprivano simboleggiati anche da un iconico film della Paramount con Richard Gere che guidava una Mercedes SL vestito Armani su colonna sonora di Giorgio Moroder.

Oro, debito e fiducia
La corsa all’oro, quindi, riflette la crisi di fiducia nelle valute fiat (non sono i denari della casa automobilistica torinese, ma le valute emissibili dietro Decisione Superiore, come in fiat lux) e nella capacità dei governi di mantenere il valore reale del denaro. È il sintomo più evidente di un’epoca segnata da debiti pubblici record, da politiche fiscali espansive e da una percezione crescente di fragilità del sistema finanziario occidentale.
Come spesso accade nella storia economica, quando la fiducia vacilla, il metallo giallo torna a essere più di un asset: diventa una forma di protesta silenziosa contro l’eccesso di carta e nel nostro caso sembra proprio che a protestare siano i soggetti che più hanno dimestichezza con la variabile M, ossia le banche centrali. Sembrerebbe il caso di preoccuparsi.
Goldfinger
Nella classica pellicola del 1964 il cattivo di turno è Mr. Auric Goldfinger (nomen omen), un criminale internazionale con la fissa dell’oro che vuole fare esplodere un’atomica a Fort Knox per rendere la riserva aurea degli USA inutilizzabile nei secoli e far impennare il prezzo dell’oro guadagnando così svariati fantastiliardi.
Il piano viene ovviamente sventato da 007 che all’epoca guidava una Aston Martin che costava ai tempi l’equivalente di 45 once d’oro. Ai prezzi attuali 45 once d’oro equivalgono a circa 185 mila dollari, più che sufficienti per comprarsi una Aston Martin oggi.
Utilizzando questa metrica motoristica, l’oro non sarebbe sopravvalutato quindi.
Anche tornando più indietro nel tempo, ad esempio alla Roma repubblicana del I secolo a.C., riscontriamo che per comprare una tunica senatoriale ci voleva l’equivalente di una oncia d’oro: circa quello che occorre oggi per un bell’abito di sartoria che non ci faccia sfigurare se ci eleggono al parlamento. Un’altra metrica che ci fornisce un quadro sul valore dell’oro e sulla sua valenza.
La mia opinione
Nel 1964 – per non parlare del I secolo a.C. – non c’era la varietà d’offerta di strumenti finanziari che c’è oggi, e che consente di strutturare anche per piccoli investitori dei portafogli efficienti, redditizi e relativamente “in sicurezza”. L’oro non rende nulla, è intrinsecamente rischioso (immaginate di aver messo tutti i risparmi in monete d’oro nel 1979), ha elevati costi di transazione ed ha un costo di mantenimento.
Per l’investitore ampiamente diversificato, l’oro resta comunque una polizza assicurativa contro eventi estremi e politiche monetarie incontrollabili. Ma come tutte le assicurazioni, il suo valore sta nel possederlo prima che serva, non nel comprarlo quando tutti lo vogliono.
Un’esposizione strategica del 5-10% del portafoglio può avere senso per chi è davvero orientato ad un ottica multi-generazione, preferibilmente attraverso strumenti fisici o ETF ben strutturati e con una policy molto lunga di ingresso (acquisti programmati di un tot l’anno su un orizzonte di più anni per mediare il prezzo). Ma la vera intelligenza finanziaria oggi non è correre dietro all’oro: è capire perché l’oro sta correndo, e che cosa questo dice sulla salute del sistema economico mondiale.
“Se il sistema politico USA rinsavisce, viene a mancare un bel po’ del sostegno al bene rifugio per eccellenza” – scrive ad un certo punto il FT. Parole d’oro.
